Sul filosofo friulano Cornelio Fabro (1911-1995), in occasione del centenario della sua nascita, non mancano ormai le miscellanee, gli interventi e le commemorazioni che si concentrano sull’uno o sull’altro dei molteplici aspetti della sua pluridecennale ricerca. Tuttavia, i momenti teoretici che reggono l’impalcatura discorsiva dei suoi due ponderosi testi del 1940-1941, dedicati all’analisi dei rapporti fra percezione e pensiero, che svolgono un serrato confronto col progetto di rinnovamento del Tomismo messo in cantiere da Franz Brentano (1838-1917) attraverso una nuova comprensione di Aristotele, non sono stati finora oggetto di adeguato approfondimento.
Spendere fatiche su questo compito può sembrare nel migliore dei casi una inutile disquisizione accademica, tanto più che su di esso, come appare evidente da un’analisi della letteratura secondaria che gravita su entrambi gli autori, non si innesta, salvo errore, se non qualche sintetico e lodevole richiamo. Questo confronto, tuttavia, non dovrebbe stupire più di tanto se si tiene a mente che lo stesso Fabro, nel 1950, in un’autopresentazione ancora inedita, nel parlare dell’orientamento dottrinale dei primi vent’anni della propria attività scientifica, aveva a chiare lettere precisato d’essersi impegnato “quasi esclusivamente” nella sistematica trattazione di “due argomenti”: 1) la struttura dell’ente, e 2) la struttura della coscienza.
Al secondo tema appartiene, in particolare, la ricostruzione e la precisazione del “sorgere della teoria moderna della coscienza nell’intento di individuarne quel principio che l’ha portata al dissolvimento” e, poi, di dimostrare come tuttora valida l’esigenza aristotelica che “il conoscere in qualsiasi forma si presenti ha sempre una sua struttura corrispondente alla sfera noetica dell’oggetto rappresentato”. E tutto questo per Fabro non significa altro, in sostanza, che il compito, il metodo e il risultato che il Brentano “affidava al suo insegnamento nella seconda metà del secolo XIX”.
Ma vediamo di illustrare alcuni passi di questo confronto, esaminandone i punti centrali quel tanto che possa risultare sufficientemente chiaro il discorso.
Per poter comprendere adeguatamente l’interesse di Fabro nei confronti di Franz Brentano e della sua scuola, occorre precisare l’inizio del suo cammino intellettuale. E’ necessario, allora, riandare indietro con la memoria agli studi e alle ricerche condotte dal filosofo friulano nei primi anni della sua attività scientifica e accademica. In particolare, nel 1931 egli si laurea in Filosofia, con una tesi su La oggettività del principio di causa e la critica di David Hume, un autore al quale secondo lo stesso Fabro viene fatta risalire ”la prima forma di Associazionismo” contro cui è insorta direttamente, e a volte in maniera persino dura, la psicologia della Gestalt – espressione di alcuni dei migliori allievi della scuola di Franz Brentano, come Ehrenfels, Stumpf, Meinong – consentendo così il recupero e la ri-costruzione di un realismo gnoseologico fedele all’Aristotelismo. Poi, nel 1934, vince il premio della Pontificia Accademia Romana di S. Tommaso d’Aquino con una dissertazione su Il principio di causa, origine psicologica, formulazione filosofica, valore necessario ed universale; nel 1937 pubblica, sulla “Rivista di Filosofia Neo-Scolastica”, un saggio su L’origine psicologica della nozione di causa e, nello stesso anno, sul “Bollettino filosofico” (Roma) una lunga recensione al volume Vita e psiche di Francesco De Sarlo. Infine, nel biennio accademico 1938-1940, il giovane Fabro riceve l’incarico di insegnare Biologia e Psicologia teoretica presso il Corso di Perfezionamento della Facoltà di Filosofia alla Pontificia Università Lateranense; e, nello stesso arco di tempo, dà alle stampe vari contributi sul problema della percezione sensoriale, su Idealismo e realismo nella percezione sensoriale, su Konwledge and Perception in the Aristotelic-Tomistic Psychology. Inoltre, a partire dal Natale 1939 trascorre alcuni periodi di studio all’Istituto di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano, sotto la guida del p. Agostino Gemelli, dove approfondisce e completa le proprie ricerche e accoglie e fa propria „la proposta di una ricostruzione teoretica sulla base della nuova Fenomenologia, di cui aveva dato alcuni ampi Saggi in precedenti articoli, passati in buona parte in questa sintesi definitiva“.
Tutto questo lavoro confluisce ne La fenomenologia della percezione (1941), in cui Fabro sfrutta, rielaborandolo e integrandolo, il materiale raccolto per i corsi del biennio 1938-1940 e presenta criticamente „i risultati, i principi e la dottrina della ‚Gestalt‘“, per metterne in evidenza valore e limiti per quanto riguarda il problema della conoscenza. Per queste ragioni, Fabro si accosta con „particolare attenzione“ alla pagina brentaniana, perché il filosofo di Aschaffenburg ha avuto chiara consapevolezza della „insufficienza dell’empirismo, sul terreno dell’osservazione psichica“, e, poi, ha tracciato „le linee di fondo“ di una „ripresa del problema della conoscenza ‚al di là‘ di Kant“. Ne analizza perciò i testi principali, di cui coglie i tratti peculiari, mette in risalto le fonti aristoteliche e medioevali, le direzioni tensionali e gli ulteriori svolgimenti. Brentano, per Fabro, nel momento iniziale della sua opera ha espresso un giudizio di dissenso nei riguardi dei principali teoremi associazionistici, e nello stesso tempo ha proposto il ritorno ad una concezione creduta ormai debellata e obsoleta. Si è così reso conto che qualora l’associazionismo non riuscisse a soddisfare le sue pretese o risultasse addirittura infondato nelle sue premesse di fondo, verrebbe a crollare tutta l’impostazione del problema gnoseologico che su di esso si basa. A tale scopo, il filosofo di Aschaffenburg, e con lui tutta la sua scuola, compiendo „un’autentica rivoluzione“, ha „raccolto in tutti i campi dovizia di argomenti contro il principio dell’associazione“, riscoprendo „la profonda bellezza della gnoseologia aristotelica“ e aprendo la strada al recupero ad una posizione „veneranda e antica, quella che Cartesio aveva preteso di liquidare e che ora, con la morte del pretendente si fa avanti per rivendicare i propri diritti“.
Tutto ciò non impedisce, tuttavia, che su taluni punti si avverta anche un chiaro dissenso tra Fabro e Brentano: vengono respinti, infatti, taluni sviluppi del pensiero di Brentano e della sua scuola, perché le giuste istanze portate avanti dal filosofo tedesco, negli ulteriori sviluppi del suo argomentare, si diramano in una diversità di modi che presentano non pochi problemi e inadeguatezze. Brentano „per aver accettato, da una parte, con soverchia fiducia, il primato dell’analisi empirica, e per essersi fermato ad un aristotelismo troppo storicamente determinato, senza tener conto degli sviluppi della tradizione posteriore arabo-latina, non è riuscito ad arginare la corrente di problemi nuovi che venivano ad imporsi, e ad impedire che prima i suoi discepoli, come il Meinong, il Marty e lo Husserl fra i principali, e poi egli stesso sconfinassero in forme aperte di razionalismo. I problemi che erano stati con sagacia ammirevole prospettati, ritornavano, a questo modo, allo stato iniziale, qui si vorrebbe tentare in forma modesta quanto si voglia, di colmare questa inadeguatezza che il metodo Brentaniano ha mostrato nella parte speculativa, a partire dall’analisi fenomenologica in cui egli è stato maestro“. Le inadeguatezze che Fabro intende colmare nel suo lavoro, e che costituiscono anche i punti di dissenso nei riguardi del Brentano e della sua scuola, si possono quindi riassumere nei due seguenti punti:
1.“ soverchia fiducia“ nel „primato dell’analisi empirica“;
2. „un aristotelismo storicamente troppo determinato“
Questi limiti, secondo Fabro, sembrano non solo non consentire al filosofo tedesco di assolvere al compito di raggiungere un equilibrio che risolva le tensioni interne al suo pensiero, ma, anzi, paiono invalidargli anche ogni tentativo di arginare l’emergere di nuovi problemi; e, poi, sembrano far sì che in definitiva egli, e ancor di più i suoi discepoli, vadano a parare in forme di razionalismo.
Sfugge, sia pure in parte, a questi rilievi critici, la posizione di Carl Stumpf, allievo prediletto di Brentano, che nella sua tarda maturità, con la sua difesa della teoria dei sensibili comuni, „costituisce uno dei contributi più notevoli per la difesa del realismo gnoseologico“ di chiara impronta aristotelica. Per Fabro, infatti, Carl Stumpf, riappropriandosi della famosa teoria aristotelica dei sensibili comuni e, poi, della teoria della „funzione sintetica della coscienza (‚senso comune‘) …arriva ad una teoria puramente psicologica che s’avvantaggia di molto – anche oggi – su qualsiasi altra, finora proposta dal pensiero moderno, Kant compreso, perché conserva il carattere originario delle strutture primitive e riconosce il contributo dell’esperienza“. Non a caso, questa prospettiva portata avanti dallo Stumpf costituirà per Fabro il quadro concettuale e programmatico, su cui fondarsi per poter dar vita, nel secondo volume del 1941, ossia in Percezione e pensiero, alla „costruzione di un realismo gnoseologico della esperienza a sfondo funzionalistico“.
Quali considerazioni è possibile fare da questa rapida analisi dei testi di Cornelio Fabro del 1940-1941, messi a confronto con alcune delle opere principali di Franz Brentano?
In primo luogo, e per la prima volta, dopo vari decenni di oblio, dalla analisi dei due ponderosi testi a stampa pubblicati da Cornelio Fabro – per i tipi delle edizioni Vita e Pensiero dell’Università Cattolica di Milano -, qui presi in considerazione, emerge una evidente e sostanziale unità di intenti, di metodo, con le posizioni di fondo espresse dal filosofo di Aschaffenburg e da alcuni esponenti di spicco della sua scuola. E perciò il quadro espositivo che fin qui abbiamo cercato di tracciare, può servire:
- a colmare una lacuna, di cui è quasi superfluo sottolineare la gravità, nella chiarificazione delle linee di fondo del pensiero del filosofo friulano e del suo deciso e costante impegno contro lo scetticismo nelle sue più varie configurazioni;
- può essere valutato come un tentativo di offrire spunti di riflessione per la precisazione di un compito per non pochi aspetti, e di certo non marginali, non ancora assolto, riguardo il posto di Fabro nell’ambito della filosofia europea contemporanea;
- a dare un contributo alla chiarificazione del problema dei rapporti Fabro-Gemelli –Università Cattolica di Milano, a tutt’oggi ancora quasi del tutto inesplorato e che copre però un arco di tempo che si snoda a partire dalla metà degli anni 30’ fino alla fine del 1958, con una collaborazione e un confronto ininterrotto, oltre che col fondatore della Cattolica, anche con Mons. Olgiati e altri esponenti dello stesso Ateneo;
- sulla scia di pregevoli contributi quali quelli offerti da Roberto Poli e Liliana Albertazzi dell’Università di Trento, ad allargare la riflessione sulla vexata quaestio della presenza speculativa, e quindi non solo fisica, del filosofo di Aschaffenburg in Italia, che come è ben noto nasce a Marienberg am Rhein (Germania), in una famiglia di origine italiana, e poi trascorre vent’anni (1895-1915) nella penisola, con soggiorni a Palermo, Roma, fino a stabilirsi definitivamente a Firenze, da dove nel 1915, a seguito dell’entrata in guerra dell’Italia, si trasferirà a Zurigo, in Svizzera.
Antonio Russo
Università di Trieste